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LAZIO Cragnotti: “Ottimo lavoro di Inzaghi. Vi svelo un grande rimpianto”

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Alla vigilia dei 120 anni della società (e dei suoi 80), l’ex presidente della Lazio Cragnotti ripercorre il suo passato al timone dei biancocelesti.

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LAZIO Cragnotti in una lunga intervista a ‘Repubblica’: «L’acquisizione fu una cosa improvvisata, sorprendente, mica studiata per chissà quanto tempo. Io all’epoca sul calcio ero agnostico, avevo altri progetti, fu mio fratello Giovanni, super tifoso laziale, a convincermi: fu la sua passione ad accelerare l’operazione.»

GASCOIGNE

«Al di là del suo talento, l’acquisto di Gazza rappresentò per la Lazio un salto di qualità dal punto di vista del marketing. Per la prima volta la maglia biancoceleste era presente negli store delle squadre inglesi, a partire dal Manchester United. Era la più venduta. Gascoigne rese la Lazio famosa nel mondo. In effetti…. Un episodio lo sintetizza bene: dopo le vacanze estive, il nostro team manager Manzini andò a prenderlo all’aeroporto di Fiumicino, solo che non lo vedeva e allora preoccupatissimo chiamò Zoff: ‘L’aereo è atterrato ma lui non c’è’. All’improvviso notò un tipo alquanto in carne seduto come un viaggiatore qualsiasi: era Gazza, diventato rotondo come una palla. Irriconoscibile. Arrivammo a inventarci dei bonus per farlo dimagrire: si pesava ogni settimana, e se aveva perso un chilo o due scattava il premio. Cose così, insomma. Ricordo quel gol di testa nel derby del campionato ’92-’93: perdevamo 1-0, lui segnò nel finale l’1-1. Era eccezionale in tutto. Mi diverte ancora oggi pensare al rapporto tra Gascoigne e Zeman, personaggi opposti. Ma nessuno sapeva confortarlo come Zoff, nei suoi momenti di depressione. Gli piangeva sulla spalla: ‘Mister, tu sei un grande e io no…’»

ZOFF

«Era il simbolo della Lazio, rappresentava i valori di questa società. Io lo vedevo come figura di riferimento nella Fifa, doveva fare quella carriera lì, diventare un grande dirigente internazionale. Aveva l’immagine e la competenza adatte. Però lui preferiva il campo, mi diceva sempre che aveva bisogno di sentire il terreno di gioco sotto i piedi. Non era ambizioso, lo considero un limite per lui, ma il suo contributo nella Lazio è stato fondamentale»

SIGNORI

Con lui iniziò l’escalation della mia Lazio verso i vertici del calcio italiano. Con Zeman formava un’accoppiata vincente. Fu un grande acquisto, diventò tre volte capocannoniere, segnava sempre. Mi dispiace che la sua storia con la Lazio sia finita male: ci furono delle incomprensioni con Mancini ed Eriksson e decise di andarsene. Il giorno della cessione, lasciò la sede di via Novaro da un’uscita secondaria, nascosto sotto una coperta nei sedili posteriori di un’auto: assurdo. Per quello che ha dato alla Lazio, meritava ben altro addio. Sì, l’operazione era conclusa ma successe un putiferio, migliaia di tifosi in strada, ho dovuto rinunciare. A Roma la piazza ha sempre tentato di condizionare le scelte della società. D’altronde va considerato che la tifoseria laziale era reduce da anni difficili, voleva godersi il campione e non era pronta per capire la mia strategia delle plusvalenze. Ora non si parla d’altro e le realizzano tutti i club, ma allora erano una novità assoluta. Cedendo grandi giocatori, io con le plusvalenze avevo un vantaggio sia dal punto di vista economico, del bilancio, sia da quello tecnico, per migliorare la squadra: perché poi i soldi venivano investiti per acquistare altri grandi giocatori. Come nel caso di Vieri…».

VIERI

«Allora le trattative non duravano sei mesi come adesso, con gli intermediari e il resto. Una mattina mi chiamò il direttore generale dell’Atletico Madrid, Miguel Angel Gil, il figlio del presidente, mi disse che avevano bisogno di vendere Vieri: ‘Lo dico a te per primo: sei interessato?’. Io ero in vacanza, dissi di sì, mi raggiunse subito con l’elicottero a Porto Santo Stefano, trattammo sul mio yacht (il ‘Florence’, omaggio alla moglie Flora, ndr) e alle 20 dello stesso giorno era tutto fatto (per 50 miliardi di lire, più 7 netti all’anno all’attaccante, ndr). Il mio amico Franco Sensi non la prese bene… Mi chiamò il giorno dopo con la voce affranta: ‘Sergio, questa non me la dovevi proprio fare’. Ma non l’avevo assolutamente fatto apposta: non potevo immaginare che la notizia si sarebbe diffusa con quella velocità, pensavo sarebbe rimasta segreta fino al giorno dopo. Per la sua cessione Moratti mi offrì 90 miliardi. Alla trattativa partecipò Mancini (l’attuale ct azzurro visse l’estate ’99 da dirigente, ndr), che mi diceva di chiederne 100: a me sembravano già tanti 90, mi vergognavo, chiudemmo a quella cifra. Settanta miliardi cash più Simeone valutato 20. Ma aveva ragione Roberto: Moratti sarebbe tranquillamente arrivato a 100»

DERBY DI MERCATO

«Batistuta? Il centravanti della Fiorentina voleva venire da noi, era un pallino del ds Governato. Ma Sensi offrì una cifra altissima (70 miliardi di lire, ndr) e poi quell’anno vinse lo scudetto. Perché nel calcio funziona così: i grandi obiettivi si raggiungono solo con i grandi giocatori, altro che storie».

DELUSIONI

«Ronaldo il Fenomeno. Io lavoravo da anni in Brasile, conoscevo tutto e tutti, per tanti mesi – quella volta sì – portammo avanti la trattativa con i procuratori: il fuoriclasse era praticamente preso quando arrivò Moratti e convinse Barcellona e agenti con cifre impossibili da contrastare. Peccato»

BOKSIC

«Era l’estate del ’93: io e Bendoni andammo da Tapie, presidente del Marsiglia, che era a Cala di Volpe e ci ospitò sul suo lussuosissimo yacht a 4 alberi. Chiudemmo l’affare in poche ore. Anche Alen era un personaggio difficile da gestire. Ricorda la notte di Dortmund? Era la stagione ’94-’95, stavamo giocando i quarti di Coppa Uefa con il Borussia. E lui a un certo punto uscì improvvisamente dal campo per andare al bagno. Tempo dopo, Signori mi raccontò che quella sera, prima della gara, Boksic gli aveva detto qualcosa tipo: ‘Non mi va di giocare, non è serata’. Un’altra volta si arrabbiò pochi minuti prima di una partita perché sosteneva che la maglietta fosse troppo stretta. Era fatto così, Alen. Ma io lo amavo perdutamente: a Napoli vinse una partita da solo, una prestazione pazzesca. E in un contrasto ruppe il naso a Ferrara, uno tosto»

FERRARA

«Sì, nel ’94 stavamo per chiudere con gli agenti quando Zeman ci disse di bloccare tutto. Non era adatto al suo gioco a zona, scelse Chamot che aveva allenato a Foggia».

ERIKSSON E MANCINI

«Il ds Governato in realtà come allenatore voleva Ancelotti. Lo chiamammo, ma ci disse che lui, ex giallorosso, non si sentiva di passare dall’altra parte del Tevere, lo avrebbe vissuto come un tradimento. Allora puntammo su Eriksson e fu la nostra fortuna. Lui e Mancini cambiarono quella mentalità fatalista, molto provinciale, che c’era nella Lazio fino a quel momento. Sembrava che la scaramanzia contasse più del lavoro. Eriksson portò tutto il suo staff, tutti molto preparati e professionali. Comprammo mezza Sampdoria perché poi arrivarono Lombardo, Mihajlovic, Veron. Avevano una mentalità vincente che fece la differenza. Al di là delle doti tattiche, Sven era soprattutto un grande psicologo: aveva un rapporto speciale con i giocatori, sapeva capirli e parlare con loro anche nei momenti difficili. Mancini è sempre stato decisivo nello spogliatoio, leader nato e persona molto intelligente. Quando smise di giocare, decise subito di diventare il vice di Eriksson. Non avevo dubbi sulla sua carriera di grande allenatore»

SCUDETTO 2000

«Lo avremmo meritato già l’anno prima: il titolo ’98-’99 ci fu scippato dal Milan, fummo clamorosamente penalizzati dagli arbitri. Un furto, proprio. Che poi vincere all’epoca era davvero complicato: c’erano le sette sorelle, sette squadre fortissime. Ora invece ci sono solo Juve e Inter, anzi fino all’anno scorso soltanto la Juve»

LAZIO PRIMA NEL RANKING FIFA

«Lo disse Ferguson: ho perso contro la squadra più forte del mondo. La vittoria della Supercoppa europea a Montecarlo, proprio contro il suo Manchester United, fu il momento più alto della mia gestione. Un’emozione indimenticabile. Tra l’altro tanti di quella squadra sono diventati bravi allenatori, compreso Simone Inzaghi che sta lavorando benissimo nella Lazio di oggi»

CESSIONI NESTA E NEDVED

«Avrebbero potuto restare entrambi. Ad Alessandro avevo aumentato lo stipendio a 6,5 miliardi di lire, solo che Berlusconi quando voleva una cosa se la prendeva. Come Moratti. E Pavel dopo che avevamo trovato l’accordo con la Juve ci disse che non si vedeva con un’altra maglia. Piangeva. Allora gli facemmo firmare il rinnovo e lui contento regalò pure la penna a mio figlio Massimo. A quel punto chiesi a Moggi di strappare il modulo federale che sanciva la cessione. Poi il manager Raiola fece cambiare idea a Nedved e così Moggi, che quel modulo invece di strapparlo lo aveva conservato, se lo portò alla Juve. Un altro film, pure quello»

LAZIO PRIMA IN BORSA

«Sì, dal 6 maggio ’98. Ho anticipato l’evoluzione naturale dei principali club di calcio, che ormai sono degli asset patrimoniali da valorizzare per soddisfare le aspettative degli azionisti. Il risultato economico conta più di quello sportivo. La Premier in questo comanda da anni: non a caso, il 10% del City è stato venduto per 500 milioni di dollari e il club vale 5 miliardi. E in Italia, il segreto del successo della Juve è soprattutto lo stadio di proprietà…».

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