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LAZIO Acerbi si racconta: “La malattia mi ha migliorato”

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LAZIO Acerbi si racconta. Intervistato da La Repubblica, il difensore biancoceleste ripercorre le tappe del suo passato.

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LAZIO Acerbi: “Paura? Ho smesso di avere paura sei anni fa. Ci pensavo proprio in queste ore. Ace, mi ripetevo, che fai se quella roba ritorna? La affronterò di nuovo, mi sono risposto. Vedo le cose ben chiare davanti a me e so che da un giorno all’altro potrebbe cambiare tutto. Chemioterapia dal sette gennaio al quattordici marzo, l’ingresso in un mondo parallelo e più vicino di quanto immaginassi che non abbandoni più, un mondo straordinario pieno di dolore e di coraggio”

UN CARATTERE DIFFICILE 

“Io, un uomo sbagliato. Credo di essere una persona solitaria e perciò difficile. È complicato starmi accanto e penso che la colpa sia soltanto mia. Non riesco a vivere in piena serenità. C’è sempre un pensiero che mi segue e non ha nulla a che vedere con quanto mi è successo. Come se nella testa mi battesse di continuo un martello. Così a volte risulto antipatico, trascinato dal vento dell’umore”

LA MALATTIA 

“Credo che la malattia mi abbia addirittura migliorato, cancellando rimorsi e rimpianti. Sono diventato un osservatore del paesaggio che sta attorno a me. Ho eliminato il superfluo, le persone negative, ma anche le illusioni. Ho smesso di sognare, preferisco fissarmi dei traguardi semplici. Volevo la Nazionale, per esempio, e me la sono ripresa. Un’ansia di meno. Come la tengo a bada? Calcio e casa, e basta. Cazzo Ace, mi ripeto di continuo, non pensare ad altro. Poi, certo, c’è il lavoro con lo psicanalista che mi segue dai tempi del Sassuolo. Lui sta a Modena, io a Roma. Ci diamo appuntamento il venerdì pomeriggio, con una videochat. Passiamo un’ora che mi fa stare bene”

IL FUTURO 

“Obiettivi? Il campo fino a 38 anni, qualche soddisfazione da togliermi con la Lazio, poi la panchina: farò l’allenatore”.  

GLI INIZI

“Maestri? Roberto Clerici, lo scopritore di Pirlo. Mi ha allenato alla Voluntas di Brescia. È morto l’anno scorso, troppo presto, aveva 75 anni. E poi il signor Romeo, ne ho dimenticato il cognome e chiedo scusa alla sua famiglia, che è stato il primo a credere in qualche mio talento. Avevo sette anni, mi portava su un campo di calcetto di Casalmaiocco sprofondato nella nebbia e nell’umidità e mi faceva tirare di destro e di sinistro. Prima di essere un difensore ho fatto il portiere e l’attaccante. Potevano mettermi in qualsiasi ruolo, me la sarei cavata comunque”.

LA FAMIGLIA

“Mia  madre mi ha educato alla bontà, mio padre mi ha trasmesso la tenacia e l’ambizione. Ho sempre avuto bisogno di un avversario per dare il massimo, l’ho idealizzato per molto tempo nella figura paterna. Dopo la morte di papà sono precipitato e ho toccato il fondo. Ero al Milan, mi sono venuti a mancare gli stimoli, non sapevo più giocare. Mi sono messo a bere e, credetemi, bevevo di tutto. Potrà sembrare un paradosso terribile, ma mi ha salvato il cancro. Avevo di nuovo qualcosa contro cui lottare, un limite da oltrepassare. Come se mi toccasse vivere una seconda volta. E sono ritornato bambino. Sono riaffiorate immagini che avevo completamente dimenticato”

SQUINZI

“Ci siamo capiti e rispettati. A volte ci bastava uno sguardo, altre volte un abbraccio. Non chiedetemi di aggiungere altro…”

LA PREGHIERA 

“Se prego spesso? Non spesso… ogni sera e ogni mattina. Da sempre. Una preghiera personale che dura almeno cinque minuti con la quale parlo con Dio e le persone care che non ci sono più, poi un Padre nostro e un’Ave Maria”.

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