Gabriele Paparelli ricorda la tragedia del padre. E ringrazia i tifosi laziali.
Gabriele Paparelli aveva 8 anni quando, quel 28 ottobre 1979, suo padre Vincenzo, 33, morì tragicamente. L’occasione un Roma-Lazio come tanti, ma che ha cambiato per sempre la vita sua e della sua famiglia. Proprio quei momenti Gabriele ha voluto ripercorrere in una lunga intervista a LA7: “Perdere un padre a 8 anni significa perdere un punto di riferimento della tua vita, stravolgere la propria esistenza. Mio padre era una persona fantastica, giovane. Eravamo una tipica famiglia di fine anni ’70: felice, allegra, genuina. Dava tutte le sue attenzione alla famiglia, ai figli, al lavoro. E in più aveva la forte passione per la Lazio. Mi si è sconvolta la vita nel giro di poche ore, quel giorno sono stato obbligato a crescere”.
Poi su quella tragica giornata: “Ho saputo di quello che era successo solo la sera, anche se la partita era nel pomeriggio. I miei familiari hanno fatto di tutto per farmi svagare. Siamo andati alle giostre. Poi ho intravisto il telegiornale in un bar, e sono stato trascinato via. Ma anche se avevo 8 anni avevo captato qualcosa, mi dicevo: “Possibile che tra tante persone sia successo qualcosa proprio a mio padre?”. Un padre che non avrebbe dovuto nemmeno assistere a quella gara: “Noi eravamo una famiglia molto unita, la domenica ci ritrovavamo nel nostro paese, a Valmontone. Pioveva, ma poi è uscito il sole, come uno scherzo del destino. Lui non ha resistito e ha deciso di andare. Io volevo accompagnarlo, ma mi ha detto di no perché essendo un derby c’era il rischio che succedesse qualcosa. Mi ha promesso che mi avrebbe portato la prossima volta. La sto ancora aspettando”.
“Sono partiti 3 razzi dalla Curva Sud, – prosegue il racconto – il primo è andato fuori l’Olimpico, mentre il secondo l’ha colpito. Mia madre gli ha detto: “Vincè, senti cosa sta succedendo?”. Ma non ha fatto in tempo a finire la frase che il secondo razzo l’ha centrato nell’occhio. Mamma d’istinto ha cercato di toglierlo e per questo si è ferita, ma non è niente in confronto alla ferita che le ha lasciato per tutta la vita quel giorno”. Da quel giorno il calcio italiano non è stato più lo stesso: “Lì si è rotto un ingranaggio che tanti tifosi possedevano. Una sicurezza che li legava allo sport, fatto di sani principi, competizione. In quel periodo uno tutto si aspettava piuttosto che morire allo stadio”. E, tanto per non farsi mancare nulla, poi sono arrivati anche gli insulti alla memoria: “Non abbiamo mai potuto convivere con quello che è successo, non ci hanno permesso di superare la cosa, perché purtroppo negli anni siamo diventati un bersaglio. Ci sono migliaia di scritte per Roma: “10 100 1000 Paparelli”, “Paparelli te stai a perde i tempi belli”. Io da quando giravo con il motorino a 16 anni mi portavo una bomboletta spray sotto la sella per cancellarle, lo facevo per nasconderle a mia madre. Era un trauma per lei, la sua giornata era finita nel momento in cui leggeva quelle frasi”.
“Provo più disperazione che rabbia, quella c’era in adolescenza. Crescendo ho capito che molte di quelle persone che scrivevano quelle cose e cantavano quei cori non sapevano neanche chi fosse Paparelli. Ho cercato di farglielo capire negli anni, ci stiamo ancora provando ma non ci siamo riusciti del tutto. Fortunatamente la tifoseria laziale ci è sempre stata vicina, a me e tutta la mia famiglia. Sono un tifoso sfegatato della Lazio anche io, ma ho la fobia dello stadio. Ci sono andato pochissime volte. Mi espongo per far capire che quello che ci hanno fatto. Cantando e scrivendo quelle cose hanno solo ferito la mia famiglia e i tifosi laziali, che considero una seconda famiglia. Il calcio va vissuto con la dolcezza e la purezza che c’è negli occhi di mia figlia quando la porto allo stadio, che vive con gioia la semplicità di vedere una bandiera sventolare”.
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