Pino Wilson, il capitano del primo scudetto biancoceleste, nel giorno dell’anniversario della scomparsa di Luciano Re Cecconi ha voluto ricordare il giovane compagno scomparso tragicamente attraverso una lunga intervista rilasciata alle colonne della Gazzetta dello Sport.
Queste le sue parole: “Ricordo perfettamente quella sera. Ero in ufficio e presi una telefonata. Dall’altro lato del filo la voce di Nando Vona, il nostro segretario. Sento: ‘E’ morto Cecconi’. Quello era il cognome del vice direttore della nostra banca. ‘Ma come, l’ho visto oggi pomeriggio?!’, gli risposi. Ci vollero una decina di secondi per chiarire l’equivoco. Corsi all’ospedale dove avevano portato Luciano, vi trovai il dottor Renato Ziaco, il nostro medico sociale, morto purtroppo anche lui otto anni dopo. ‘Lo vuoi vedere?’, mi chiese. Gli risposi di si. Era disteso su una lettiga, coperto da un lenzuolo. Aveva un forellino vicino allo sterno, così piccolo che quasi non si vedeva. Agghiacciante”.
Wilson ha 71 anni, quel giorno ne aveva 31. Il corpo che stava guardando era quello del suo compagno “Cecco“, che di anni ne aveva appena compiuti 28: “Trascorsi i giorni successivi nell’incredulità. Lo so che può sembrare un luogo comune, ma davvero non riuscivo ad accettare che potesse essere successa una cosa del genere. Rammento la sua gioia durante l’ultimo allenamento: era felice perché aveva capito che stava per tornare in campo dopo un lungo infortunio, me lo rivedo al bar con la sua faccia contenta. Luciano si bloccava di rado e per lui che era un combattente, abituato a dare tutto se stesso, era davvero pesante non poter giocare. Per questo era contentissimo”.
Invece, con quella Lazio di ribelli e ribaldi, impasto di genio, furore e passione, il destino usò la mano pesante. Tommaso Maestrelli, il «papà» che sapeva parlare a quei ragazzacci, se n’era andato un mese e mezzo prima, a soli 54 anni, per un cancro. Poi fu la volta di Re Cecconi: “Nel gioco moderno Luciano avrebbe fatto una bellissima figura. Sapeva stare in campo, non era solo un giocatore di corsa, aveva anche piedi buoni. Era la classica mezzala destra, per stare alla Lazio di oggi un Parolo ma con più continuità d’azione sulla fascia. Perché nella stessa azione potevi trovartelo in difesa a coprire e subito dopo lanciato nella metà campo avversaria, grazie a un dinamismo fenomenale. Con quel fisico bestiale, era un altro Benetti per intenderci, avrebbe potuto giocare tranquillamente altri cinque o sei anni. E sempre nella Lazio, perché lui apparteneva a quella maglia”.
Una squadra unica, con tanti giocatori che si dichiaravano apertamente di destra e giravano armati (“nella vita c’è un momento della stupidaggine, l’abbiamo passato anche noi”, ricorda il capitano). Una squadra divisa in clan (Chinaglia, Wilson e Pulici da un lato, Martini e Re Cecconi dall’altro: avevano anche spogliatoi diversi) durante la settimana ma che in campo diventava un blocco di granito: “Lui apparteneva all’altra fazione ma la morte di Maestrelli ci aveva unito, tanto che avevamo deciso di prendere casa nello stesso comprensorio. Una casa che Luciano non s’è potuto godere. Il segreto di quel gruppo era Maestrelli: arbitrava le partitelle d’allenamento, combattutissime e che a volte andavano avanti anche oltre il tramonto. Poi ci chiamava in cinque o sei da lui e sistemava le cose: sapeva come eravamo fatti, con il suo carisma riusciva a tenerci insieme. Così in ritiro si faceva gruppo, sempre. E siccome eravamo scaramantici, poteva capitare di vedere due volte lo stesso film, e nello stesso cinema, perché ci aveva portato bene. La domenica, poi, guai a chi toccava uno di noi. Credetemi, con la guida di Tommaso in quegli anni abbiamo ottenuto risultati impensabili. Un uomo di caratura d’oro puro”.
Uomini, appunto: “Re Cecconi era soprannominato ‘il saggio’. Per me era ‘il trasparente’. E con questo aggettivo penso di aver detto tutto”. Un saggio cui non mancava il fegato per lanciarsi col paracadute: “Era stato Martini a iniziarlo. L’aveva chiesto anche a me e gli chiesi se era pazzo, per me era inconcepibile. Ricordo che una volta, per un’iniziativa dell’Unicef, atterrarono a Tor di Quinto, sul nostro campo di allenamento. Che matti”. Già, erano davvero strani angeli, come i loro compagni di squadra. Angeli di carne e ossa. Angeli neri, bianchi e celesti.