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Il porta a porta e lo stare dalla parte del tifoso e della Lazio: sempre e comunque

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Stare dalla parte del tifoso e della Lazio: un concetto che può sembrare quasi contraddittorio, in un momento in cui la Lazio sembra dilaniata all’interno, in cui molti tifosi non si riconoscono nell’attuale società.

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Legittimo, ma partiamo subito da un concetto: per chi scrive, la Lazio è una religione UNITARIANA: non c’è Trinità, non c’è mistero, c’è la Lazio e il patrimonio dei suoi tifosi, tutti, dal primo all’ultimo. Un corpo e un’anima, col dovuto rispetto (che molto spesso è mancato da una parte e dall’altra) sia verso chi è mosso dall’ardore di sempre, sia verso chi è in pausa di riflessione, sentendosi improvvisamente in una terra straniera.

Ma la Lazio, almeno per quanto mi riguarda, è una. Cragnottiana e vincente, Lotitiana e mediocre, infognata nel calcio scommesse o esaltata dalla Banda Maestrelli. E’ una storia di gioie e dolori che non finirà nemmeno di fronte all’ennesima sconfitta, all’ennesima campagna acquisti sballata, all’ennesima triste fotografia di uno stadio vuoto.

Non c’è un’ALTRA Lazio, mai e poi mai, così come non ci sono tifosi della Lazio diversa schiatta. Il tifoso non è una casta, è forse la categoria più bistrattata nel mondo del calcio di oggi, pur essendo alla base della piramide. Senza di loro crolla tutto, ma continuano ad essere frustati da chi sta in cima, forse perché nelle idee di chi comanda solo un popolo sottomesso può essere considerato un popolo fedele.

Quello laziale invece è un popolo libero: ma la libertà è un concetto che ferisce sempre quando non collima con le proprie convinzioni. La libertà va rispettata anche quando differisce dal pensiero guida del sentire comune. Vale per la Curva, che ha visto distorto il suo messaggio: “Torniamo allo stadio per non disperdere il patrimonio delle future generazioni” in “Torniamo allo stadio perché tutto va bene, ci hanno fatto il lavaggio del cervello!”.

Ma vale anche per quegli undici tifosi che dopo aver fatto l’abbonamento il primo giorno, si sono visti sbattuti in prima pagina. Per essere andati controcorrente, anche con insulti pesanti in quell’inferno di vigliaccheria che sono ormai i social. E così sta venendo interpretato anche il porta a porta di ieri: sorrisi e sorprese inaspettate per quegli undici tesserati che si sono visti recapitati la maglia da trasferta da De Vrij, Lulic, dai giocatori più rappresentativi, non di questa Lazio, di quella Lazio o di chissà quale invasione degli ultracorpi.

Non è con queste iniziative, si è detto, che si coprono le lacune: ed è anche giusto. E’ bello però vedere una spruzzata di buonumore per undici tifosi che erano stati additati come ascari, e che vanno invece rispettati per la loro scelta tanto quanto chi resta fuori ad oltranza o chi si è visto intimare dai giocatori di stare zitto dopo quattro gol al Chievo in una stagione piena di fiele.

Sarebbe bello il rispetto per tutti: il laziale è inquieto, oggi parla di Cragnotti come un principe azzurro, ma chi se li ricorda i sermoni sulla “Lazio che non emoziona”, le contestazioni a base di “Latte e biscotti”, i “Sergio, la Lazio siamo noi” nella notte di Montecarlo? L’era della felicità non è mai esistita, al di là di ciò che può dire qualche trasteverino che ha salito quello scalino, e che sulle partite non ci scommetteva come magari faceva Mauri, ma le cedeva proprio nelle mani del nemico, così. Eppure lui può parlare del tifoso 24 ore al giorno, come chi si scrive le lettere aperte da solo, schiavo di una battaglia che in 12 anni non ha portato un singolo frutto, nemmeno piccolo, acerbo e cisposo: ammettere di non contare alcunché sarebbe una sconfitta più dura da digerire di un 26 maggio.

Le uniche battaglie che vanno a segno, sono quelle del tifoso: che non si arrende mai, che non si vende per una maglietta, che siano le 40.000 di Ugo Longo o le 11 distribuite ieri: ma mantiene la sua identità e la sua ironia: e se un porta a porta serale può riportare un’ombra di sorriso e legittimare la libertà di una scelta, ben venga.

L

e porte di casa mia per Lulic, per quel che vale, so’ sempre aperte: c’ho pure la grappa bosniaca.

Fabio Belli

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