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CRONACA – L’ipocrisia dell’Italia sulla vendita delle armi ai paesi in guerra

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Roma – Siamo tutti bravi a parlare, puntando il dito, quando si parla di terrorismo. Ma il vero terrorismo sono i sotterfugi e i “segreti” (che poi segreti non sono) che si nascondono dietro tanta inspiegabile violenza.

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Il nostro governo, sempre in prima fila per difendere l’una o l’altra corrente dimentica di dire – mostrando tutta l’ipocrisia che si nasconde dietro al fatto – che solo nell’ultimo anno la vendita di armi italiane all’estero e le forniture verso Paesi in guerra sono triplicate. In aumento soprattutto quelle verso l’Arabia Saudita, condannata dall’Onu per crimini di guerra nel conflitto in Yemen e per la quale il Parlamento Europeo ha chiesto un embargo sulla vendita di armamenti :(

La guerra è una brutta bestia creata ad arte per arricchire poche persone a spese di tanta povera gente onesta. Come nel caso delle banche italiane implicate in questo losco giro di affari che grazie alla loro intermediazione finanziaria – Intesa e Unicredit  su tutte, ma anche piccoli istituti come la tanto chiacchierata Banca Etruria – accrescono il loro fatturato.

La relazione annuale del governo sull’export militare italiano 2015 mostra un aumento del 200% per le autorizzazioni all’esportazione definitiva di armamenti il cui valore complessivo è salito da 2,6 miliardi del 2014 ai 7,9 miliardi dell’ultimo anno. Un dato senza precedenti che, come osserva il governo nel documento, testimonia la “consolidata ripresa del settore della Difesa a livello internazionale” :( :(

Come si legge nella relazione “i settori più rappresentativi dell’attività d’esportazione sono stati l’aeronautica, l’elicotteristica, l’elettronica per la difesa (apparati di guerra elettronica, avionica, comunicazioni, radar), la cantieristica navale ed i sistemi d’arma (artiglierie, missili), che hanno visto, nell’ordine: Alenia Aermacchi, Agusta Westland, GE AVIO, Selex ES, Elettronica, Oto Melara, Intermarine, Piaggio Aero Industries, MBDA Italia e Industrie Bitossi ai primi dieci posti per valore contrattuale delle operazioni autorizzate. La maggior parte di queste aziende sono di proprietà o in varia misura partecipate dal Gruppo Finmeccanica. :( :( :(

Comunque sia, il boom di vendite delle armi verso i Paesi in guerra è una violazione della legge 185/1990, “che vieta l’esportazione e il transito di armamenti verso Paesi in stato di conflitto e responsabili di gravi violazioni dei diritti umani”. Ma grazie a un escamotage che Sergio Mattarella, allora ministro della Difesa, denunciò anni fa come “un grave svuotamento delle disposizioni contenute nella legge 185”, secondo questa trovata, tutta italiana, il governo può aggirare il divieto di forniture militari a un paese in guerra se con lo stesso stato ha stipulato un accordo intergovernativo nel campo della difesa e dell’import-export dei sistemi d’arma. Il caso più grave riguarda le forniture belliche alle forze aeree del regime Saudita che da più di un anno stanno bombardando indiscriminatamente città, scuole e ospedali in Yemen e che finora hanno provocato almeno 2mila morti civili, di cui un quarto bambini. Crimini di guerra condannati più volte dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon e che nel febbraio scorso hanno spinto il Parlamento europeo a sollecitare un embargo sulla vendita di armi a Riyad.

Export Bellico

L’export di armi ‘made in Italy’ verso l’Arabia Saudita autorizzato nel 2015 è passato dai 163 milioni del 2014 ai 257 milioni dell’anno successivo. Un aumento del 58% in gran parte dovuto alle tonnellate di bombe aeree prodotte nello stabilimento di Domusnovas, in Sardegna, della Rwm Italia S.p.a. e spedite via aerea e navale da Cagliari tra le proteste e le denunce di parlamentari e pacifisti. Consegne confermate dalla relazione del governo: 600 bombe Paveway da 500 libbre (per 8,1 milioni di euro), 564 bombe Mk82 da 500 e 2000 libre (3,6 milioni), 50 bombe Blu109 da 2000 libre (3,6 milioni) e cento chili di esplosivo da carica Pbxn-109 (50mila euro).

Inoltre è da registrare un forte incremento del valore delle esportazioni italiane verso l’Arabia Saudita che rientrano tra i programmi intergovernativi di cooperazione militare, saliti dai 172 milioni del 2014 ai 212 milioni del 2015. Il principale riguarda i cacciabombardieri Eurofighter usati ogni giorno dalla Royal Saudi Air Force nei suoi raid in Yemen. La fornitura riguarda l’Italia non solo per la sua partnership industriale nel consorzio europeo (con Finmeccanica) ma anche perché gli aerei, assemblati negli stabilimenti inglesi della Bae System, vengono consegnati all’aeroporto bolognese di Caselle. Nonostante il divieto anche di solo transito di armi destinate a Paesi in guerra contenuto sempre nella legge 185/90.

Anche le forniture belliche italiane verso gli altri paesi che partecipano alla guerra in Yemen a fianco dei sauditi sono aumentate: gli Emirati si confermano il principale cliente mediorientale (con 304 milioni come l’anno prima), mentre è stato registrato un forte incremento di vendite al Bahrein (da 24 a 54 milioni) e soprattutto al Qatar (da 1,6 a 35 milioni). E da ora anche il Kuwait sarà un cliente di primordine grazie a un contratto multimiliardario, firmato poche settimane fa, per la fornitura di 28 cacciabombardieri prodotti da Finmeccanica.

Ma l’export delle armi è in continuo aumento verso tutti i Paesi in guerra: l’Iraq, nuovo cliente italiano, esordisce nel 2015 con vendite per 14 milioni (armi leggere e munizioni, quindi Beretta); la Turchia, passata da 53 a 129 milioni, che bombarda i curdi con gli elicotteri T129 costruiti da Finmeccanica; la Russia (da 4 a 25 milioni) che continua a ricevere blindati Lince della Fiat-Iveco nonostante l’embargo post-Ucraina; il Pakistan (da 16 a 120 milioni) in perenne conflitto con talebani, indipendentisti baluci e con l’India (anch’essa, nonostante la crisi dei marò, con forniture belliche italiane in aumento da 57 a 85). Nel 2015, prima del caso Regeni, sono aumentate le vendite all’Egitto (da 32 a 37 milioni), comprese le armi leggere e i lacrimogeni usati dalla polizia del Cairo nelle repressioni di piazza.

Un altro dato importante che emerge dalla relazione è l’aumento del ruolo d’intermediazione finanziaria delle banche italiane. Se la parte del leone la fanno le banche straniere (Deutsche Bank e Crédit Agricole sopra tutte) si fanno strada Unicredit (passata dal 9 al 12% delle operazioni) che Intesa Sanpaolo (dal 2 al 7,4%). Seguono con percentuali minori Bnl, Ubi (Banco di Brescia, Popolare Commercio e Industria, Regionale Europea) e una sfilza di “popolari” (Emilia Romagna, Carispezia, Banco Popolare, Valsabbina, Sondrio, Carige, Etruria, Parma e Piacenza, Credito Cooperativo Cernusco S.N. e Versilia e Lunigiana, Spoleto, Friuladria, Bpm) e perfino Poste Italiane.

Nonostante pochi milioni di euro di operazioni, ma in aumento rispetto all’anno precedente, merita una menzione particolare Banca Ubae: istituto controllato dalla Libyan Foreign Bank (banca offshore specializzata in esportazioni di petrolio dalla Libia) e nel cui azionariato figurano Unicredit, Intesa Sanpaolo, Montepaschi ed Eni.

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