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TEMPI BELLI – Caro Stefano ti scrivo, così mi distraggo un po’

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aro Stefano ti scrivo, così mi distraggo un po’. E siccome sei molto vicino, parlerò piano, visto che di confusione in questo periodo ce n’è già molta.

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Tra poco sarà Natale e, noi laziali, speravamo potesse essere festa tutto l’anno: ci speravamo a Pasqua, quando il cielo sembrava senza nuvole, bianco e azzurro. Finali da giocare, Europa da conquistare, una squadra che era un piacere vedere in uno stadio che a Lazio-Empoli faceva 50.000 persone. Che all’Olimpico sono sempre un po’ diluite, ma se giocassimo alla “Lazio-Qualche Prodotto o Servizio Inutile Che Non Ti Serve Ma Che Caccia Fuori Un Sacco Di Soldi Per Sponsorizzare Lo Stadio Arena”, avrebbero fatto invidia a Borussia Dortmund, Arsenal o qualsiasi altro muro umano in giro per l’Europa.

Era così anche alla finale di Coppa Italia o nel derby. Dove probabilmente il nostro destino, fatto di bivi incredibilmente chiari e netti al contrario della vita dove tutto è più sfumato e dubbioso, ha preso una direzione amara. Nella storia della Lazio, caro Stefano, spesso è tutto bianco o nero. Quando sbagli un esame, finisce un amore, cambi lavoro o affronti qualunque altra prova, sai che dalla fine può nascere un nuovo inizio. E invece quando il nostro amico Filip è riuscito a colpire due pali con un solo tiro ai supplementari contro la Juve (sempre lei, nei tuoi momenti più neri che da qualche tempo sono anche i nostri), noi che abbiamo già qualche annetto di Lazio alle spalle, abbiamo capito tutto.

Caro Stefano, nessuno come noi laziali sa interpretare la storia e i suoi segnali. Perché nei momenti chiave c’è sempre un destino ineluttabile che ci punisce e, a fare da contraltare, uno Stellone che ci salva quando tutto sembra perduto. Tu sei l’allenatore che ha riportato la gioia di essere laziali, che ogni tanto se ne va, non bisogna vergognarsi ad ammetterlo, anche perché i grandi amori sono sempre portatori di grandi passioni e, di conseguenza, di sofferenza, quando le cose non vanno bene. Chi ti scrive apprezzava tanto il vecchio “zio” che c’era prima di te, perché chi ti scrive è una persona molto pratica, anche un po’ cinica quando serve. Ma chi ti scrive non è scemo, e quando ti ha visto cantare l’inno insieme ai tuoi ragazzi, ha capito che stava nascendo qualcosa di speciale, che mancava da quando il buon vecchio Delio correva impazzito sotto la Nord. Una Lazio più debole della tua e di quella dello “zio”, forse ancor più ferocemente contestata, ma che riuscì a portare 70.000 persone allo stadio, alla fine, come il suo allenatore aveva sognato quando contro la Reggina si presentarono in 7.000.

Chi ti scrive, caro Stefano, ti ha accolto quasi a pernacchie, un anno e mezzo fa. Perché la cura dello “zio” lo aveva forse illuso che non fosse possibile un altro tipo di calcio, che la gioia non fosse più riproducibile in un ambiente depresso. Eppure quello che tu hai regalato in quella primavera così veloce a passare eppure così intensa, non potrà mai essere dimenticato. Per cui tutto questo panegirico è solo per dirti: grazie, e non mollare. Perché non meriti di essere lasciato solo proprio adesso, anche se qualcosa, come tutti gli Uomini, spesso la sbagli pure tu. E se qualcuno ti ha voltato le spalle, poi dovrà prendersi le tue responsabilità: esatto, le tue, perché le sue non ha saputo prendersele, né chi scende in campo, né chi siede in tribuna.

Forse, a costo di essere impopolare a dirlo, più i primi dei secondi, perché è vero che ormai alla Lazio siamo abituati a vedere gli errori di sempre ripetuti all’infinito, ma chi, a fine anno, non avrebbe puntato ad occhi chiusi sulla conferma in blocco della squadra della gioia? Ma tutto questo, caro Stefano, probabilmente lo sai già.

Qualsiasi cosa accada, io mi sto preparando. E (purtroppo) non è più una novità…

Fabio Belli

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