Nella periferia di Belfast, capitale dell’Irlanda del Nord, nacque un ragazzo che, come tanti suoi coetanei, andava pazzo per il pallone. La mamma disse di non aver mai visto George Best, questo era il suo nome, lontano più di 5 metri dalla palla. Come se ne avesse bisogno, se senza, a stento, riuscisse a vivere. Piccolo fisicamente, dispensava dribbling ubriacanti negli sconfinati prati che circondavano il suo quartiere. Era un ragazzo che, oltre il pallone, amava i libri e la scuola. Un’infanzia nella media, figlio di lavoratori della working class irlandese, non viveva nel lusso, ma di problemi grossi non ce ne erano. Il primo problema sorse quando, iscrittosi ad una scuola molto rinomata, scoprì che tra gli sport praticati non vi era il calcio. Brutto colpo per il ragazzino, che per un po si accontentò dei prati dietro casa per far magie con la palla ma dopo poco, preso dalla squadra del quartiere, decise di cambiarla, per stare più vicino al campo di allenamento. Fu il primo, e decisivo passo, che segnò l’addio ad una promettente carriera scolastica, e che lo lanciò verso la leggenda. Gracile fisicamente si pensava potesse faticare nei polverosi campi minorili, oppresso da centimetri e kg degli avversari. Invece no. Il suo talento era incredibile, ma la sua astuzia, se possibile, lo era ancor di più. Sfruttava ogni tipo di vantaggio che un ragazzino minuto e poco prestante poteva avere con uno molto più grande di lui. Il risultato era sempre lo stesso: i difensori impazzivano, quel ragazzo moro passava dove spazio non c’era, e la palla scompariva per riapparire all’improvviso, dietro di loro o già dentro la rete. Un giorno, la squadra di Best, aveva un amichevole con l’under18 di una società della capitale. George, appena quindicenne, segnò due reti da cineteca, incantò tutti gli spettatori. Fortuna volle che tra tutti quelli che rimasero a bocca aperta vi era anche un osservatore del Manchester United. Immediata la chiamata al quartiere generale dei red devils, la risposta fu “Torna con questo ragazzo, oppure non tornare proprio“. Detto, fatto. Di lì a due giorni George salì sull’aereo direzione Manchester. Abituato alla tranquillità ed il verde della sua cittadina, si trovò difronte ad una città caotica e piena di palazzi. Le industrie avevano preso il posto delle colline, il traffico aveva rubato la scena agli uccellini ed il dialetto inglese gli era davvero ostile. Dopo solo due allenamenti, molló: torna a casa. Sì perché, nonostante la nomea ed il personaggio che si è creato, George è timido, insicuro ed ama la vita tranquilla. Due allenamenti, però, sono bastati a capire che razza di giocatore fosse. Uno che, farselo sfuggire, sarebbe stato davvero un delitto. Emissari da Manchester partono allora per Belfast e, per fortuna, George ci ripensa. Spinto ed incoraggiato soprattutto dalla mamma vuole darsi un’ulteriore opportunità. Questa volta il risultato, è diverso. Si inserisce nella squadra giovanile ed anche nella vita di Manchester, anzi comincia a prenderci proprio gusto. Si parla di lui ben da prima del suo esordio che, comunque, non ha bisogno di essere raccontato: un autentico capolavoro. Di lì in avanti la sua storia è leggenda. C’è chi pensa che sia il più classico esempio di genio e sregolatezza, chi invece lo reputa il più forte giocatore di sempre e chi, come il sottoscritto, non lo ha mai visto giocare ma ne è sempre stato affascinato. La verità, forse sta nel mezzo, ma limitarsi a parlare dell’aspetto calcistico di George Best sarebbe riduttivo e poco interessante. Sì perché lui è stato, sicuramente, la più grossa rock star avuta nel mondo del calcio. Ragazzi innamorati del suo stile di vita, ragazzi innamorati del suo calcio e ragazze innamorate (e basta) di lui facevano la fila fuori dall’hotel per strappargli una firma. A Manchester diventó “il quinto Beatles” per alcuni, il migliore di tutti per altri. Di lì in poi però, la sua timidezza viene messa, almeno per l’aspetto pubblico, da parte, forse troppo. Con la maglia numero 7 dello United vince tutto e milioni di persone si innamorano di lui. Che sia stato il più grande di sempre, uno dei più grandi, o semplicemente un ottimo giocatore e poco importa se, nel giorno del suo funerale, oltre 50.000 persone scesero per strada a piangere la sua morte. Si, perché evidentemente allora, qualcosa di speciale lo ha fatto in vita, ancor prima che in carriera. E se oggi, 10 anni dopo la sua prematura morte, ancora far parlare di se allora si, fu davvero una rock star. Ancora oggi, in giro per il mondo c’è chi crede che “Pelé is good, Maradona is better ma George is the Best”…
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