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Il ritorno dell’araba fenice

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apitàno e càpitano. Basta cambiare un accento e il senso della frase cambia.

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Ci sono capitàni e capitàni, sia chiaro. C’è chi lascia il segno, chi lo toglie, c’è chi a cui basta una stagione o anche un’ora per entrare nella storia.

E poi ci sono cose che càpitano ad alcuni e che càpitano ad altri. Fossero capitate ad altri, chissà come sarebbe andata a finire… A Stefano Mauri, quel che capitava capitava, ciononostante si sapeva che sarebbe rimasto capitàno.

Questa storia inizia da un cous cous cucinato in cella. Anzi no, inizia con una partita di Coppa Italia nel gelo di gennaio (Lazio-Inter 1-1, per chi non se la ricordasse). Tra i due episodi ci sono più di sei anni di differenza. Nel 2012 Mauri viene incarcerato nell’ambito delle indagini per l’ennesimo scandalo scommesse. Custodia cautelare  stabilita il 28 maggio, derubricata il 14 giugno con la seguente comunicazione: “Non ci sono i presupposti per applicare una misura cautelare”. Touchè! Siamo in Italia…

Mauri “dentro” ci è finito per uno scandalo-scommesse fumoso e poco circostanziato rispetto a quelli che hanno scosso il calcio italiano nel corso dei decenni. Le partite incriminate, ovvero Lazio-Genoa e Lecce-Lazio, ininfluenti ai fini della classifica, risalgono al 2011, ma questa storia continuerà a tormentare il capitàno per quattro anni. Cose che càpitano? Mica tanto. Non accade spesso di essere processati, di scontare una condanna per omessa denuncia inerente a partite sulle quali non è mai stato accertato un chiaro illecito. Ancor più atipica è l’idea di voler riaprire quel processo a tre anni di distanza. C’è chi vuole mischiare ancora le carte, in un incubo che sembra senza fine.

“La Lazio rischia” è il titolo abusato sui giornali, siti internet, sottopancia di servizi televisivi. Un titolo consunto, utilizzato anche dopo il trionfo di Napoli, il 31 maggio scorso. Tutta colpa di tal Baranca della Federbet (per la serie: “Carneade! Chi era costui?“) convinto che la UEFA attendesse la riapertura del processo sportivo sul caso Mauri per escludere la Lazio dalle competizioni europee. Nulla di nuovo insomma. Una punizione esemplare che, a detta di molti, avrebbe dovuto colpire la Lazio in tutte le ultime quattro stagioni. Tutte tranne una: nel 2014 quando la Lazio, guarda caso, non si è qualificata neppure per l’Europa League. Cose che càpitano…

Il capitàno invece, è sempre risorto dalle proprie ceneri. Ci è riuscito quando nel 2006, appena arrivato a Roma, gli fu detto che non era né carne e né pesce. Non fu dello stesso avviso Delio Rossi che lo reinventò trequartista alle spalle di Pandev-Rocchi. Quei 3 insieme spinsero la Lazio alla conquista della qualificazione in Champions. Ce l’ha fatta quando ha avuto tutta l’opinione pubblica contro dopo la diffusione della foto con Ilievski. Schernito e insultato dai tifosi avversari, Mauri ha saputo riscattarsi segnando e decidendo due derby nella stessa stagione. Ogni qual volta è stato attaccato, Mauri ha sempre risposto sul campo a suon di gol. Nel maggio del 2013 è arrivato anche l’affronto definitivo: il trionfo del 26 maggio. Troppo.

Arrivata la squalifica, mezza Italia e soprattutto mezza Roma ha esultato: “il mostro è stato finalmente sbattuto fuori dagli spogliatoi”. Oltre che in prima pagina. E lui di tutta risposta è rientrato in campo proprio nel derby, con la Roma favorita e la Lazio investita dai media del ruolo di vittima sacrificale. Tuttavia la gara è finita 0-0.

Torna a giocare Mauri, con indosso la fascia da capitàno. La fenice è di nuovo risorta. A gennaio ennesimo derby tra “galacticos” e “peones”, come vorrebbe la realtà della grande stampa: il campo dice ben altro, e il primo gol chi lo segna? Esatto, la fenice.

Torna a parlare tale Ilievski, la causa di molti mali, di accuse non ancora del tutto precisate. I giornali riprendono a gonfiare i titoli: “La Lazio rischia, Mauri sarà di nuovo processato”. I ritagli di due e tre anni prima potrebbero essere tranquillamente riciclati. E alla fine arriva l’addio alla Lazio: “Sono certo che questo non è un addio, ma un arrivederci…”, c’è scritto nella lettera di commiato ai tifosi.

Ma mai dare per morta la fenice, che la sua resurrezione l’ha in realtà  vissuta in quella cella con altri due detenuti nordafricani. Qualcuno si aspettava che dopo una vita di agi da calciatore, sarebbe crollato svelando chissà quale scenario apocalittico sul calcio italiano. Lui, invece, si è comportato con naturalezza, cucinando il cous cous per lui e per i due occasionali commensali, aspettando che la sua verità venisse a galla. E adesso che l’incubo è finito, qualcuno si è inorridito nel vedere la fenice risorgere ancora. Di nuovo con l’aquila sul petto, di nuovo con la fascia da capitano a difendere i colori più belli del mondo.

Perché c’è capitàno e capitàno.

Fabio Belli

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